Riportiamo la descrizione del viaggio della memoria cui parteciperanno alcuni dei gruppi di studenti vincitori del Concorso regionale di Storia contemporanea a.s. 2018/19 a cura di Marco Travaglini

Venticinque studentesse e studenti piemontesi, accompagnati da cinque docenti e da uno degli esperti degli Istituti storici della Resistenza del Piemonte parteciperanno dal 30 maggio al 2 giugno al viaggio studio  a Praga, capitale della Repubblica Ceca, e al lager di Terezìn. Il viaggio in questi luoghi della memoria è riservato agli studenti vincitori della 38° edizione del progetto di Storia Contemporanea, promosso dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico regionale.

Praga, una città mai uguale a se stessa

Praga si specchia, da più di dieci secoli, nelle acque della Moldava, dominata dal Castello (Pražský hrad), la più grande fortezza medievale esistente, oltre che simbolo emblematico del grande passato storico, culturale e sociale della capitale. Il centro storico della città è formato da sei quartieri che, in passato, erano città indipendenti e che vennero unificate nel Settecento: Staré Mesto, cioè la Città Vecchia, Josefov, il quartiere ebraico che, attualmente, fa parte della Città Vecchia, Nové Mesto, cioè la Città Nuova, Malá Strana, cioè la Parte Piccola, Hradcany, ossia il quartiere Novy Svet, e Vysehrad. La capitale boema esercita un fascino del tutto particolare, ed è facile rimanere colpiti dalla sua atmosfera, dalle vie strette e dai ponti, da palazzi e chiese, dalle statue. Dal Ponte Carlo, vecchio ormai di quasi sette secoli e lungo mezzo chilometro tra la città vecchia e Malà Strana, con i suoi “protettori di pietra”, fino alla Torre dell’Orologio, all’isola di Kampa, alla via dell’Oro (Zlatá ulička), dove vivevano, all’epoca di Rodolfo II, gli alchimisti, segregati nelle piccole casette (Puppenhaus). La leggenda più nota è quella del Rabbino Loew e del suo Golem. Si racconta che Rabbi Jehuda ben Bezalel, nel ‘500, creò un gigante di argilla destinato a difendere gli ebrei dalle persecuzioni. Praga è così: mai uguale a se stesse, sfuggendo a qualsiasi etichetta e definizione, si presenta immobile, vorticosa e originale.

Le tombe all’ombra dei sambuchi

Il vecchio cimitero ebraico di Praga (in ceco Starý Židovský Hřbitov), fondato nel 1439, è uno dei più celebri in Europa. Per oltre tre secoli, a partire dal Quattrocento, a fianco della vecchia sinagoga è stato l’unico luogo dove gli ebrei di Praga potevano seppellire i loro morti. Le dimensioni sono rimaste all’incirca quelle medievali e, nel tempo, si è sopperito alla mancanza di spazio sovrapponendo le tombe, perché il cimitero non poteva espandersi fuori dal perimetro esistente. In alcuni punti sono stati creati fino a nove strati di sepolture diverse. L’affastellarsi delle lapidi, l’una contro l’altra, il silenzio assoluto del luogo, la penombra creata dalle fronde degli alti sambuchi che crescono nel cimitero, danno a questo luogo un’aura spettrale. Le tombe consistono in lapidi di arenaria o di marmo, piantate nella terra. Solo dai disegni simbolici si può intuire la professione o le qualità del defunto: forbici per sarti, pinzette per i medici, mani che benedicono per i sacerdoti e così via. Si contano circa dodicimila lapidi, ma si ritiene che vi siano sepolti oltre centomila ebrei. La tomba più antica è quella di Avigdor Kara e risale al 1439, mentre l’ultima è quella di Moses Beck del 1787. Durante l’occupazione tedesca, il cimitero fu risparmiato: le autorità occupanti del Terzo Reich decisero che sarebbe rimasto “a testimonianza di un popolo estinto”.

La persecuzione nazista

Nel quartiere ebraico di Praga, Josefov, ci sono sette sinagoghe. Nella sinagoga Pinkas è collocato il Monumento agli Ebrei Boemi e Moravi, vittime delle persecuzioni naziste. Furono 80 mila quelli trucidati nei campi di sterminio i cui nomi sono stati scritti tutti a mano lungo le pareti del museo. La Pinkasova è la seconda più antica del ghetto e, oggi, è un luogo aperto al pubblico dedicato ai 77.297 ebrei di Boemia e Moravia, vittime dell’Olocausto. Al primo piano della sinagoga si può visitare l’esposizione dei Disegni dei bambini di Terezín 1942–44, una delle testimonianze più toccanti e agghiaccianti della vita dei piccoli all’interno del lager di Terezìn.

Terezìn, la “città di Teresa

Terezìn  si trova ad una sessantina di chilometri a nordovest di Praga. Nell’arco di un decennio, tra il 1780 ed il 1790,  l’imperatore d’Austria Giuseppe II fece edificare questa “città di guerra” proprio al centro della Boemia. La città prese il nome di Theresienstadt (in ceco, appunto, Terezìn), ovvero la “città di Teresa“, in onore  della madre, l’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Il profilo era quello di una città militare, divisa in due parti ( la “piccola” e la “grande” fortezza), progettata allo scopo di difendere Praga da attacchi provenienti da nord, edificata alla confluenza dell’Ohře (Eger in tedesco) con l’Elba, uno dei fiumi più lunghi dell’Europa centrale. Il punto prescelto era all’altezza della divisione in due rami dell’ Ohře.

Le due fortezze

Lungo il ramo più a occidente venne costruita la fortezza più grande e più munita. Lungo il ramo orientale, quella più piccola. La distanza tra le due è di circa un chilometro. Questo sistema difensivo poteva ospitare una popolazione di sei-settemila persone, compresa la guarnigione. Il ruolo militare di Terezìn era in funzione antiprussiana. Le lotte tra l’Austria e la Prussia di Federico II avevano insegnato che era cosa saggia, oltre che prudente, proteggere adeguatamente la capitale della Boemia. Però, nonostante la minaccia prussiana, rimase una città militare per meno di un secolo e non fu mai al centro di combattimenti. Così, nel 1882, fu abbandonata come sede di guarnigione e la piccola fortezza a oriente venne adibita a carcere per prigionieri particolarmente pericolosi, come Gavrilo Princip, che uccise  l’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e sua moglie il 28 giugno 1914 a Sarajevo, accendendo la scintilla che portò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.Sul muro della cella numero 1 della “piccola fortezza” di Terezìn, tracciati sull’intonaco, vennero trovati gli ultimi versi di Gavrilo Princip: “Emigreranno a Vienna i nostri spettri e là si aggireranno nel Palazzo a incutere sgomento nei sovrani”.

Tra una guerra e l’altra

La regione di Theresienstadt/Terezìn, quella dei Sudeti, era da molti secoli abitata, prevalentemente, da popolazioni di etnia e lingua tedesca, pur trovandosi in territorio boemo. Dopo l’anschluss dell’Austria nel marzo del ’38, Hitler annesse anche la regione dei Sudeti nell’ottobre dello stesso anno, dopo aver ottenuto il consenso dei governi inglese e francese (ma non di quello cecoslovacco) alla Conferenza di Monaco. Così, nel 1940, la Gestapo iniziò la costruzione di un enorme ghetto nella fortezza, facendone un campo di lavoro forzato.

Da Terezìn alle camere a gas di Auschwitz

Nel periodo in cui durò il ghetto – dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l’8 maggio 1945 – passarono di qui 140 mila prigionieri. Proprio a Terezìn perirono circa 35 mila detenuti. Degli 87 mila prigionieri deportati a Est, dopo la guerra fecero ritorno solo 3.097 persone. Fra i prigionieri del ghetto di Terezìn ci furono all’incirca 15 mila bambini, compresi i neonati. Erano, in prevalenza, bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezìn insieme ai genitori. La maggior parte di loro morì nel corso del 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo la guerra non ne ritornò nemmeno un centinaio e di questi nessuno aveva meno di quattordici anni. I bambini sopportarono il destino del campo di concentramento insieme agli altri prigionieri di Terezìn.

Fame, miseria e sofferenza

Dapprima i ragazzi e le ragazze che avevano meno di dodici anni abitavano nei baraccamenti insieme alle donne; i ragazzi più grandi stavano con gli uomini. Tutti i bambini soffrirono con gli altri le misere condizioni igieniche e abitative e la fame. Soffrirono anche per il distacco dalle famiglie e per il fatto di non poter vivere e divertirsi come avrebbe richiesto la loro età. Per un certo periodo i prigionieri adulti riuscirono ad alleviare le condizioni di vita dei ragazzi facendo sì che venissero concentrati nelle case per i bambini. La permanenza nel collettivo infantile alleviò in pare, specialmente sotto l’aspetto psichico, l’amara sorte dei piccoli prigionieri.

La scuola del ghetto

Nelle case operarono educatori e insegnanti prigionieri che riuscirono, nonostante le infinite difficoltà e nel quadro di limitate possibilità, a organizzare per i bambini una vita giornaliera e perfino l’insegnamento clandestino. Sotto la guida degli educatori i bambini frequentavano le lezioni e partecipavano a molte iniziative culturali preparate dai detenuti. E non furono solo auditori: molti di essi divennero attivi partecipanti a questi avvenimenti, fondarono circoli di recitazione e di canto, facevano teatro per i bambini. I bambini di Terezìn scrivevano soprattutto poesie. Una parte di questa eredità letteraria si è conservata.

L’Olocausto con gli occhi dell’innocenza

L’educazione figurativa veniva organizzata nelle case dei bambini secondo un piano preciso. Le ore di disegno erano dirette dall’artista Friedl Dicker Brandejsovà. Il complesso dei disegni che si è riusciti a salvare e che fanno parte delle collezioni del Museo statale ebraico di Praga, comprende circa 4.000 disegni. I loro autori sono in gran parte bambini dai 10 ai 14 anni che utilizzavano le più svariati tipologie della pessima carta di guerra, quello che riuscivano a trovare, spesso utilizzando i formulari già stampati di Terezìn, le carte assorbenti. Per il lavoro figurativo i sussidi a disposizione non bastavano e i bambini dovevano prestarseli a vicenda.

Dalle farfalle alle esecuzioni

I disegni si possono suddividere in due gruppi: da una parte i disegni sul passato, sui ricordi dell’infanzia perduta. In questa categoria si collocano le raffigurazioni di giocattoli, di piatti pieni di cose da mangiare e della casa perduta, i disegni e i dipinti di prati pieni di fiori e farfalle, motivi fiabeschi e giochi per bambini. La collezione comprende, in prevalenza, questa tipologia di disegni. Il secondo gruppo, invece, è formato da disegni sul ghetto di Terezìn. Raffigurano la cruda realtà nella quale i piccoli erano costretti a vivere. Si vedono raffigurate le caserme di Terezìn, i blocchi e le strade, i baraccamenti con i letti a tre piani, i guardiani. Ma i bambini disegnavano anche i malati, l’ospedale, il trasporto, il funerale o un’esecuzione.

Credevano in un domani migliore

Nonostante tutto, però, i piccoli di Terezìn credevano in un domani migliore. Espressero questa loro speranza in alcuni disegni nei quali hanno raffigurato il ritorno a casa. In questi fogli c’è di solito la firma del bambino, talvolta la data di nascita e di deportazione a Terezìn e da Terezìn. La data di deportazione da Terezìn è anche, in genere, l’ultima notizia rimasta del bambino. Questo è tutto quello che sappiano sugli autori dei disegni, ex prigionieri bambini del ghetto nazista di Terezìn. La maggioranza dei bambini di Terezìn morì. Ma è rimasto il loro lascito letterario e figurativo che a noi parla delle sofferenze e delle speranze perdute.

Piazza San Venceslao, simbolo dell’indipendenza

A Praga è d’obbligo una visita alla piazza di San Venceslao. La Vaclavské, come la chiamano i praghesi, è un luogo alquanto anomalo. Più che una piazza vera e propria è un largo viale lungo 750 metri nel cuore di Nové Město, la città nuova. Piazza San Venceslao, i Piccoli Champs-Élysées, rappresenta il simbolo dell’identità praghese e ceca da quando, nel 1848, durante i moti rivoluzionari, venne chiamata così. Nel 1918 fu da qui che partirono le rivolte antiasburgiche a favore dell’indipendenza nazionale, dichiarata il 28 ottobre dello stesso anno. E fu lì che, nell’agosto del 1968 i praghesi protestarono contro l’invasione dei carri armati sovietici venuti a stroncare la Primavera di Praga, l’esperimento di “socialismo dal volto umano” (in pratica una vera e propria liberalizzazione e democratizzazione della vita politica) portata avanti dai dirigenti comunisti di quel paese guidati da Alexander Dubček. Alla mente ritorna una delle più belle canzoni di Francesco Guccini: “Di antichi fasti la piazza vestita, grigia guardava la nuova sua vita: come ogni giorno la notte arrivava, frasi consuete sui muri di Praga. Ma poi la piazza fermò la sua vita e breve ebbe un grido la folla smarrita, quando la fiamma violenta ed atroce, spezzò gridando ogni suono di voce”. La fiamma è quella che, la sera del 16 gennaio 1969, trasformò in una torcia umana il corpo di un giovane studente di filosofia praghese, il ventenne Jan Palach. Il suo sacrificio fu un gesto di libertà, un grido contro tutte le tirannie.

Il “testamento” di Jan Palach

Jan Palach scrisse suo quaderno quello che può essere definito, a tutti gli effetti, il suo testamento politico. Vi si può leggere: “Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zparvy (il giornale delle forze d’occupazione sovietiche). Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s’infiammerà“. Il gesto di Jan Palach non rimase isolato: almeno altri sette studenti, tra i quali il suo amico Jan Zajíc (la “torcia numero due”), seguirono il suo esempio.

“..la città intera che lo accompagnava”

Il funerale di Jan Palach (che venne poi sepolto nel cimitero di Olšany) fu programmato per domenica 25 gennaio 1969. L’organizzazione fu curata dall’Unione degli studenti di Boemia e Moravia. Vi parteciparono circa seicentomila persone, arrivate da tutto il paese, in silenzio, proprio come racconta la già citata canzone di Guccini (“dimmi chi era che il corpo portava, la città intera che lo accompagnava: la città intera che muta lanciava una speranza nel cielo di Praga”). Quel giorno, in una Praga plumbea,   scrisse Enzo Bettiza sul Corriere della Sera “il suono delle sirene a mezzogiorno e il rintocco delle campane trasformano l’intera città in un «paesaggio pietrificato», dove tutti rimangono fermi e silenziosi per cinque minuti”. Il monumento in sua memoria (e di Jan Zajíc ) è poco visibile. Si trova a pochi metri dalla fontana davanti all’edificio del Museo Nazionale ed è stato realizzato in forma orizzontale. Dal lastricato del marciapiede emergono due bassi tumuli circolari collegati da una croce di bronzo (che simboleggia allo stesso tempo un corpo e una torcia umana). La posizione della croce indica la direzione in cui Jan Palach cadde a terra. Sul braccio sinistro della croce si leggono i nomi di Jan Palach e Jan Zajíc con le rispettive date di nascita e morte. Entrambi, e prima di loro, gli insorti di Budapest nel 1956, furono i primi caduti per la nuova Europa. Ci vollero vent’anni prima che il Paese riconquistasse, pienamente, indipendenza e libertà, fino al novembre del 1989, quando si avviò la “rivoluzione di velluto” che, in breve, rovesciò il regime cecoslovacco e filosovietico di Gustáv Husák ed elesse presidente della Repubblica lo scrittore e drammaturgo Václav Havel, mentre Dubček fu acclamato, riabilitato ed eletto presidente del Parlamento.

Marco Travaglini